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LA PELLE DI DIO


Tabernacolo in pietra. 
Nota a margine dell’opera di Marco Danielon 


Il tabernacolo opera di Marco Danielon evoca una pittura  di Paul Klee, dove la semplicità esprime la sintesi di un cammino. Un lavoro di sottrazione, di scavo alla ricerca dell’anima della pietra e del nocciolo della fede. La forma geometrica netta e forte esprime stabilità e affidabilità.  Ma in quel corpo squadrato la pietra colpita dallo scalpello e il  taglio che  attraversa la superfice rivela la fragilità di quel corpo, la sua ferita. Le parti ruvide di quel corpo di pietra raccontano la pelle di Dio.

La pelle di un Dio che ha sete di amore e cammina lungo il deserto del mondo per condurre verso l’acqua viva. E’ la pelle delicata e segnata di un padre o di una madre che non nascondono le rughe, segno del loro magistero, da cui sono fiorite le generazioni. La pelle di Dio dice paternità e maternità. E in mezzo a quel corpo di Dio, come l’arcobaleno dopo il diluvio, è impressa la ferita dell’incarnazione. La parabola di Cristo che arriva al cuore della Legge scritta sulla pietra e ne fa uscire il canto. E’ la ferita del costato di Cristo, provocata dalla lama di una lancia. E’come una bocca aperta che invoca più che gridare. Invoca  lo sguardo del samaritano che passa lungo la strada affinché abbia compassione e si fermi, perché tutti gli affaticati e  gli oppressi trovino riposo. E’ una ferita ospitale quella incisa nella pietra, che accoglie  il dubbio di chi gli sta davanti insieme alla consegna di un segreto, di una parola d’amore. Ferita di spada , ma anche feritoia pasquale. La stessa che apparve agli occhi di Tommaso il quale fu invitato  dal Cristo a mettere il dito nella profondità del mistero.

La forza di questa ferita pasquale evoca lo stupore e l’incanto che Caravaggio impresse sulla tela. Ferita che ospita il canto del dubbio e fa sentire ciascuno intorno alla tavola di Dio. Il marmo bianco dell’Altipiano di Asiago custodisce i semi sparsi nel vento mescolati al sangue di tante giovani vite mandate a morire nella grande guerra. La pietra di questo tabernacolo custodisce la  memoria dei morti e le tante primavere negate in attesa di risurrezione. E insieme al sangue, alle storie di guerra, come quelle raccontare da Mario Rigoni Stern, c’è l’acqua delle lacrime delle tante donne, spose e madri addolorate, madonne di tutti i tempi, accovacciate sotto la croce in silenzio. 

E’ un tabernacolo aperto questo. Senza serratura. Perché  Dio possa donarsi con più agio, come più gli piace . Per risparmiargli la fatica  e lasciare libero l’incontro. E’ lo sguardo orante la vera custodia del pane di Dio. E’ lo stesso pane ospitante e ospitale che si lascia prendere e si consegna al viandante, al pellegrino, al peccatore senza resistenza. Chi ha fame venga e mangi. Non si paga questo pane;  è un pane che matura nei solchi della gratuità e si dona. Un pane che nasce dall’albero della croce. 
“Prendete e mangiate tutti”, voi che avete fame di senso, di tenerezza, di giustizia. 

Davanti a questo tabernacolo ci si sente come convocati, ospitati. E tuttavia questa convocazione non si ripiega in una postura intimista. La ferita parlante ti riconsegna al mondo, ti chiede di proseguire il viaggio. Proprio come Gesù che passato da un villaggio si ferma ma poi prosegue per altri villaggi e altre città.  E’ una pietra  in movimento, un corpo in evoluzione quello di questa pietra bianca, che contesta in un certo senso ogni ripiegamento e ogni rassegnazione. Un invito ad alzarsi in piedi e andare, magari a due e due come i discepoli di Emmaus verso la periferia del mondo per riconoscere nei corpi delle donne e degli uomini feriti e umiliati la ferita della pietra, la pelle di Dio. 
Tabernacolo come icona di una Chiesa conviviale che apre il suo grembo agli smarriti e ai soli. 
Una pietra che vibra , quella di questo tabernacolo, come corpo vivente.
E fa gridare a Maria “Egli  è vivo, è vivo, lo grida la mia carne di madre” (A. Merini)   
                                                                   
Don Marco Campedelli 

Volto, Forma, Racconto

Arte sacra